Qualche mese dopo la morte di Steve Jobs arrivò nelle librerie di mezzo mondo una delle più incredibili, appassionanti e meglio scritte biografie di sempre: Jobs, vergata dal Premio Pulitzer Walter Isaacson, che nell’arco di 600 pagine serrate e palpitanti come un thriller, raccontava la tumultuosa esistenza dell’imprenditore, dagli esordi nel garage con Wozniak ai trionfi ottenuti con l’iQualsiasicosa, passando per la grande crisi vissuta a livello umano e professionale a metà degli anni ’90. Proprio da quella sceneggiatura prende lo spunto Steve Jobs, un’operazione artistico/commerciale con pochi eguali nella storia del cinema recente, vista l’eccelsa qualità dei talenti coinvolti.

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Raccontare la vita di una persona la cui esistenza è stata, davvero, larger than life, sarebbe stata fatica sprecata (o tempo perso, come nel caso dell’ insipido istant movie con il peraltro somigliantissimo Ashton Kutcher, un bignami senza valore), così la coppia Sorkin/Boyle opta per un approccio più innovativo e efficace: isolare Jobs in tre momenti identici (i minuti precedenti alla presentazione di un prodotto) diluiti nel tempo (Macintosh, Next, iMac) e costringerlo a relazionarsi con il suo piccolo universo personale (Lisa, la figlia inizialmente ripudiata, il sodale Steve Wozniak, John Sculley, l’AD che di fatto estromise Jobs da Apple, Andy Hertzfeld, la mente dietro al Macintosh e Joanna Hoffman, capo del marketing di tutte le aziende dirette da Jobs).

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Sorkin si conferma uno dei migliori dialoghisti in circolazione e conferisce al film un impianto circolare e teatrale, elemento che però non permette al notoriamente ipercinetico Boyle di trovare un habitat naturale in cui sfogare la sua vena surreale. Se la sceneggiatura funziona a meraviglia (nonostante un eccessivo “sbilanciamento” sul rapporto con la figlia) e le battute da segnare col pennarello e imparare a memoria non si contano, la regia fatica un po’ ad adattarsi a questo modello e risulta più piatta di quanto forse sarebbe stato lecito aspettarsi. Scelte così drastiche poi, fanno inevitabilmente di Steve Jobs un film per conoscitori, anche superficiali, delle vicende dell’imprenditore. Nonostante la presenza di alcuni flashback for dummies, è chiaro che solo i fan (molto numerosi, questo va detto) sapranno cogliere citazioni, riferimenti e apprezzare la cosecutio temporum scelta da Sorkin.

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Come in molti hanno scoperto leggendo l’ opera di Iverson, Steve Jobs non aveva nessuno dei talenti per i quali viene ricordato: non era un innovatore in senso stretto, nè un bravo tecnico o un designer creativo. Era un visionario ed eccelso comunicatore e venditore, certo, ma anche un pessimo compagno, collega, capo e padre. In quest’ottica spiace che lo script, fedele e credibile, scivoli proprio nell’ultima sequenza, piuttosto incoerente con quanto mostrato in precedenza.
Un personaggio complesso e complicato, che probabilmente nessun’opera a posteriori potrà mai realmente sviscerare, anche se il film è molto efficace nel mostrare l’abilità di Jobs a creare hype per i suoi prodotti, attesi messianicamente da una folla adorante che col passare degli anni si fa sempre più ampia, mantenendo però quello spirito da “iniziati” che caratterizza tutt’oggi gli utenti Apple.

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Efficace il cast. Fassbender “non gli somiglia per niente”, ma è abilissimo a dare spessore e concretezza ad un personaggio sfuggente e difficile, bravi sono tutti i comprimari, che nel caso di Rogen/Woz possono anche fare affidamento su una certa somiglianza. La migliore del gruppo però, e la cosa è doppiamente interessante visto che Steve Jobs è un film al maschile e “per maschi” (almeno in potenza) è Kate Winslet: la sua Joanna Hoffman si trasforma nella coscienza pulita, nella saggia nemesi, risoluta e dotata di un’invidiabile etica ed onestà intellettuale.

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Steve Jobs è un ottimo film ed un efficace documento di come la tecnologia ed il modo che abbiamo di relazionarci ad essa sia radicalmente cambiato nel corso del tempo. Sono passati oltre 30 anni da quando il Time mise in copertina come uomo dell’anno un Pc (non Apple!) e nessuno come Jobs, con il suo inarrivabile carisma, la sua oratoria e le sue idee, giano bifronte, genio e mostro, è riuscito ad incarnare il concetto astratto di innovazione. La sua assenza insomma, si farà sentire.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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